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Processi logici
Susanna Salerno
(racconto pubblicato sui Quaderni grigionitaliani, anno 92° / 4-2023)
Opera protetta dalla legge sul diritto d'autore - è vietata ogni sua riproduzione, anche parziale - grazie e buona lettura!
Una volta al mese, ad esser precisi in occasione del primo lunedì dello stesso, ci incontravamo in una vecchia stanza in disuso della biblioteca. La gentilissima direttrice, amica dai tempi in cui ero studente al liceo cantonale, ci permetteva di entrare nelle sere stabilite dal calendario, e ci lasciava usare quella grande stanza con l’ingresso esterno rispetto all’edificio centrale, dove invece erano le sale vere e proprie.
Per la verità c’erano molti locali migliori, la biblioteca era grande e soprattutto all’ultimo piano si sarebbe stati comodi e tranquilli, ma a me piaceva quell’atmosfera un po’ polverosa, gli ambienti rischiarati dalla luce fioca proveniente da un antico lampadario con le rose di vetro e le sedie imbottite di velluto, più simile a un negozio di robivecchi, una specie di grande cantina. Nelle sale aperte al pubblico l’arredamento era moderno, gli scaffali di metallo chiaro e l’illuminazione scelta per gli ampi spazi toglievano intimità, invece dal nostro antro seminascosto non trapelava quasi luce all’esterno, e questo era in ogni caso preferibile, visto che lo usavamo in orari in cui l’edificio era ufficialmente chiuso.
Ogni biblioteca è come una grande arca, sebbene non contenga coppie di esemplari umani, animali e vegetali da salvare per un futuro mondo migliore, bensì tomi, volumi, manuali, testi, in una parola: libri, nobili esemplari cartacei dell’amore umano verso la ricerca, le domande, lo studio e infine, benché povera cosa rispetto allo scibile universale, la sapienza umana.
Che parolone, c’era da rabbrividire solo a pronunciarlo, seppure a bassa voce. Ma se c’erano innumerevoli templi della scienza e della conoscenza, come i laboratori di ricerca, le università, gli istituti di ogni genere e disciplina, in cui al sapere venivano aggiunti di tanto in tanto un tassello, una formula, una riflessione, una teoria, a conti fatti era nelle biblioteche che il sapere andava a finire, ordinato e catalogato dopo essere stato stampato su quel meraviglioso oggetto chiamato libro.
Il nucleo centrale del nostro gruppo era costituito da alcuni ex studenti di Filosofia, Matematica e Fisica, conosciutisi anni prima in occasione di un ciclo di lezioni di Logica, già dottorandi con precise aspirazioni alla vita universitaria, aspirazioni che attualmente si erano quasi per tutti realizzate, e infatti ormai eravamo professori, docenti, ricercatori, insomma gente rispettabile che si guadagnava il pane cercando di aggiungere qualcosa al mare della conoscenza, e con il compito talora ingrato di diffonderla, giacché il mondo, checché se ne dica, non è sempre propenso ad accoglierla con gratitudine.
Non tutti per la verità continuavano ad occuparsi di quella materia ardua, la Logica matematica, che ad alcuni tuttavia appariva superiore a qualsivoglia speculazione di diverso ordine cui si interessavano altri appartenenti a quel singolare circolo, nonostante tutti concordassero sul fatto che era grazie alle formule e agli algoritmi che questa generava, che si sarebbe plasmato il futuro di tutti noi. Devo dire, a onor del vero, che io ero il meno ferrato in quella disciplina, e la mia debolezza dipende probabilmente dall’ingiustificata eppure invincibile avversione ispiratami da mentore e seguaci della suddetta disciplina. In quante scelte della nostra vita siamo influenzati purtroppo da quelli che rappresentano fisicamente una possibilità, o l’altra!
Dapprima, per alcuni anni, quando eravamo ancora studenti, ci incontravamo saltuariamente; i più infervorati discutevano, coprivano di formule ed enunciati le tovaglie di carta di una trattoria vicina all’Università, e ciascuno proseguiva poi per la sua strada, seguendo il suo mentore e corteggiandolo più, e più assiduamente, di quanto avrebbe probabilmente corteggiato una donna. Fatto è che quando, tempo fa, qualcuno propose l' idea di un vero e proprio circolo organizzato, vennero recuperati tutti gli individui ritenuti più o meno idonei, pescando soprattutto fra amici e conoscenti di vecchia data, e si dette vita al quel singolare cenacolo.
L’idea in fondo era buona: ormai le nostre strade si stavano tracciando, studiare e fare ricerca era la nostra vita, ma incontrarsi non era sempre facile. In questo modo avremmo potuto scambiarci un po’ di sapere, ciascuno di noi avrebbe tenuto a rotazione una conferenza su un argomento specifico facente parte dei suoi interessi o del lavoro di cui si occupava in quel momento e tutti avrebbero potuto così venire a conoscenza di ciò di cui gli altri si stavano occupando.
La volontà di non chiudere la propria curiosità a temi estranei a quelli più strettamente scientifici e l’amicizia che ormai ci legava da decenni, indusse gli ideatori a proporre anche a me la questione, nonostante io fossi l’unica persona a non occuparsi né di matematica, né di scienza. Malgrado il mio, ora posso dire non casuale contatto con loro, dopo la laurea, avvilito e turbato dalle materie studiate e non molto più erudito di quanto non fossi prima di dedicarmici, ero tornato ai miei reali seppur (a loro modo di vedere) certamente discutibili interessi, giungendo persino a conquistarmi nella mia disciplina un posto come professore associato, proprio nell’Università che avevamo frequentato quasi tutti.
Quella sera, che nella mia memoria è più inquietantemente viva di ogni altra trascorsa in compagnia dei miei colleghi, era una fredda sera d’inverno. Pioveva a dirotto già da due giorni e il vento forte scuoteva gli alberi nel viale che mi avrebbe portato alla biblioteca. La maggior parte dei miei amici era di sicuro già arrivata con il treno, abitavano tutti accanto alla propria università, mentre io amavo ancora trascorrere i fine settimana a Coira, avevo un appartamentino vicino alla Cattedrale e il lunedì dei nostri incontri mi regalavo un giorno in più nei Grigioni. Avendo lavorato per ore e ore al computer però, quella sera mi ero costretto a un giro più lungo prima di recarmi alla biblioteca.
Ero salito verso l’ospedale perché mi piaceva la vista da lassù, ma scendere era stato difficile, la pioggia era addirittura aumentata e pareva di trovarsi nel mezzo di una tormenta, con il vento che quasi mi strappava via l’ombrello e il cappotto ormai grondante acqua.
Così era la mia città, di giorno piena di gente in giro per negozi, ma di sera, e soprattutto di notte, si risvegliava il mistero; le stradine buie raccontavano arcane storie a chi sapeva ascoltarle, e gli spettri se ne uscivano a chiacchierare fra loro e a commentare le follie del presente.
Volentieri sarei ritornato a casa, anche perché la relazione in programma era piuttosto aliena dai miei interessi attuali e di certo più attraente per gli addetti ai lavori, ma nessuno di noi sarebbe mancato a un incontro, e ovviamente non lo avevano fatto gli altri quando ero stato io, l’ultima volta, a riferire su un tema che non poteva essere così ben gradito: È la scienza la nuova religione della nostra epoca?
Stavolta invece avrebbe parlato il Logico, il rappresentante supremo della disciplina nel nostro circolo, stimato e rispettato da tutti, nonostante un certo gelo che avvolgeva la sua persona e ne emanava. Dico “gelo” e non correggo l’espressione, prima di tutto perché non credo se ne avrebbe a male e secondariamente perché mi pare che nessuna parola come questa si convenga meglio alla sua figura, di sicuro una delle più singolari e interessanti, sebbene lo fosse, per me, in un modo per così dire “scientifico” (ecco che uso anch’io la famigerata parola), come esempio di un tipo di umanità ammirata e scansata a un tempo, e non certamente nel senso proprio di un interesse che induca immediati sentimenti di affetto o volontà di conoscenza personale.
Quando entrai, dopo aver scosso fuori della porta l’ombrello carico d’acqua ed essermi diretto verso l’unica sedia libera, la relazione aveva già avuto inizio. Il mio conoscente stava spiegando il concetto di “teoria del significato”, argomento che ancora riuscivo a comprendere, e così mi posi in ascolto con la ferma intenzione di trarne qualche serio giovamento.
Da tempo mi interrogavo su chi infine, con le chiavi di cui era in possesso, riuscisse a comprendere meglio la realtà. Se era vero che la scienza, in particolare negli ultimi decenni, stava facendo passi da gigante, cambiando e plasmando profondamente il mondo in cui vivevamo, altrettanto vero mi pareva che alcune dimensioni dell’umano ne soffrissero e stessero offrendo un tributo altissimo su quell’altare.
Era indubbio: la medicina, con le discipline sorelle, stava guarendo malattie che fino a pochi anni fa erano una condanna a morte, stava creando sempre nuovi farmaci e vaccini, aprendo prospettive rosee per diagnosi e cure di innumerevoli malanni, e probabilmente era prossima anche a una specie di rivoluzione riguardo a una delle questioni che più inquietano la nostra società, e cioè la vergognosa beffa dell’invecchiamento, che tale deve considerarsi per esseri che purtroppo, ancora oggi, accumulano esperienze e conoscenze a qual fine? Per portarsele nella tomba insieme a un corpo ormai inservibile.
La fisica indagava l’infinitamente piccolo e ci spiegava come è nato l’universo che (non) conosciamo e la matematica ce ne illustrava il funzionamento. Eppure…
Eppure la logica, gli esperimenti, le formule e gli algoritmi non davano risposte alle grandi domande dell’umanità, c’erano questioni come “chi siamo”, “da dove veniamo”, “dove andiamo”, che rimanevano lì con il loro bravo punto interrogativo alla fine. Anzi, bisognava fare attenzione a esporle, quelle domande, perché si veniva immediatamente tacciati di ingenuità; spalle si alzavano e sopraccigli si incurvavano come per dire: ma è uno scherzo? Sto sentendo veramente questi vaneggiamenti?
E per fortuna che al Cern a Ginevra, uno dei maggiori templi mondiali della scienza, quelle domande percorrevano, poste e ripetute in tante diverse lingue, il corridoio d’ingresso per i visitatori. Dunque qualcuno c’era a comprendere di non comprendere, non ancora, non con la sola scienza. Una contraddizione che faceva ben sperare? O invece rispondere a quelle domande era la sfida degli ultimi sacerdoti, quelli delle particelle, che prima o dopo pensavano davvero di potercelo spiegare?
“Questi princìpi fondamentali possono ovviamente trovare obiezioni di diversa natura e radicalità...” La voce lievemente metallica del Relatore risuonava tranquilla nella stanza e tutti erano cortesemente attenti; anch’io riuscii a seguire senza eccessiva difficoltà la menzione di alcune importanti conseguenze dei princìpi fondamentali della teoria in questione, fino a che tuttavia un boato tremendo, un tuono più vicino degli altri, non fece sobbalzare l’erudita platea e non mi consentì, rompendo il silenzio di quei primi minuti, di rivolgere qualche parola al mio vicino.
La relazione riprese, ma io, seduto accanto a una vecchia finestra a volta, fui ben presto rapito dal fenomeno naturale e mentre mi sforzavo, ciononostante, di ascoltare, i miei pensieri presero a vagare all’esterno, fra gli alberi mossi dal vento, fra le ombre sulla piccola piazzetta deserta e l’alito decisamente sinistro che pareva avvolgere ogni cosa come in un fosco sortilegio.
“Questa concezione bivalente dell’enunciato...” Le parole ormai vagavano nella mia mente senza riuscire a costituire più un senso compiuto; “olismo epistemologico” e “revisionismo logico” cadevano come lievi foglie morte sulla mia fantasia, rapita ormai dalle misteriose visioni notturne.
Ma ecco che, all’improvviso, un tuono più forte del precedente scosse di nuovo la nostra riunione, provocando questa volta l’interruzione della corrente elettrica. D’un tratto fummo nel buio assoluto.
Dal buio ero attratto come qualcuno che non sappia nuotare può essere avvinto dalla visione di un mare in tempesta: affascinato se aggrappato a uno scoglio, ma in preda al panico se scaraventato tra i flutti. D’altra parte avevo sempre pensato che la paura del buio fosse normale, e che piuttosto chi ha paura della luce sia il vero nemico di tutto ciò che è umano. Ma la questione che si poneva era la seguente: dove si trova la luce? Nelle formule scientifiche, negli esperimenti, nei calcoli aritmetici? Oppure nelle visioni, nei sogni, nella fede che non si lascia spegnere da tutto ciò che è basato sull’evidenza?
Abbiamo occhi e non vediamo, siamo dei ciechi che si muovono fra forme e colori costruiti da un cervello ingannatore, mentre la realtà, quella vera, la percepiamo solo in uno sguardo interiore, libero dalle costrizioni dello spazio e del tempo, condizioni e allo stesso tempo limiti di tutto il nostro sapere?
Dalla finestra trapelava il giallore fioco di un lampioncino, troppo tenue per lasciar intravedere le figure presenti e distinguerle, ma ciò che mi diede una certa ansia fu l’assoluto silenzio dei miei amici. Possibile che nessuno avesse accolto l’improvvisa oscurità con un’esclamazione, una piccola manifestazione di sorpresa o di disappunto?
Chiamai con voce lieve il mio vicino, poi ripetei il suo nome con maggior convinzione, e al suono della mia voce nel buio, cui non un soffio né un movimento fece eco, saltai in piedi.
Stavo per gridare quando il bagliore di un lampo illuminò per un momento la stanza.
Ma era vuota! Non c’era più nessuno!
Come avevano potuto lasciarla senza che io me ne accorgessi? Uscire senza il benché minimo rumore?
Inquieto e guardingo mi spinsi verso la minuscola uscita che dava sulla piazzetta. Tutto ciò che desideravo era fuggire al più presto da lì. Ma ecco che, giunto in prossimità della porta, dovetti constatare con immenso stupore che la parete di fronte a me era completamente bianca e non vi era traccia di alcuna uscita. Mi voltai verso la sala, e fu allora che iniziò lo spettacolo più inquietante della mia vita.
Laggiù, in fondo, dove pochi istanti prima si trovava il banco dietro il quale sedeva il Relatore, era adesso un lungo tavolo scuro e pesante, di inequivocabile stile secentesco.
Due candelabri d’argento posavano grevi sul nero ripiano, le candele sembravano accese da tempo, perché già si scorgevano i riccioli creati tutto intorno dalla cera scaldata, e la stanza era illuminata da quel chiarore spettrale. Il soffio del vento era cessato e non si udiva più neppure il tintinnare della pioggia sui vetri irregolari della finestra.
La stanza era vuota e, oltre alle sette sedie collocate dietro al tavolo, una si trovava al centro della stanza, di fronte ad esso.
Che strano, mi dicevo, e d’altronde non ero stupito quanto avrei dovuto. Provai a guardarmi intorno in cerca di una via d’uscita, quando, voltatomi un momento verso il tavolo, mi accorsi che ora le sedie erano occupate.
Al centro sedeva il Logico, ma era impossibile individuare le altre figure, i cui volti sembravano come coperti da un velo scuro, leggero ma impenetrabile.
- Dunque siedi. - disse questi. - Siedi e per una volta cerca di prestare attenzione.
E’ singolare come l’animo umano sia capace di stupore al cospetto di minimi eventi che ne stravolgano le aspettative o le abitudini, e come invece, talvolta, di fronte a misteri ben più inquietanti, reagisca senza meraviglia alcuna e vi si sottometta come sotto la forza della più ovvia necessità. Non mi chiesi perché accadesse tutto ciò, perché fosse cambiato a tal guisa lo scenario in cui mi muovevo, apparendomi logico, logico, lo svolgimento attuale dei fatti.
Raggiunsi la sedia ed eseguii l’ordine chinando la testa. Erano lì per giudicarmi e io improvvisamente mi sentii colpevole, indegno anche solo di rivolger loro il mio sguardo.
- Se intendi addurre giustificazione al tuo agire, parla immediatamente. Ti sono tuttavia concessi solo pochi minuti. Tu comprendi che questo triste episodio non può sottrarci troppo del nostro tempo. Un tempo infinitamente più prezioso del tuo, come puoi facilmente intuire.
Che cosa avrei dovuto dire a mia discolpa?
Non ero veramente colpevole? Non mi sentivo tale fin nella mia più intima fibra?
- Io so di aver mancato... - cominciai, ma quella breve pausa appena all’inizio del discorso che avrebbe dovuto alleviare il giudizio, renderlo più mite, mi fu fatale. Lo capii immediatamente. Chi può permettersi il lusso di tre puntini di sospensione quando ogni istante dovrebbe valere oro, chi può arrogarsi il diritto di rinunciare a una parola chiara e definita per l’incertezza, l’approssimazione... non certo un innocente.
Compresi e mi fermai. Alzai per un istante gli occhi e li ripiegai sul pavimento di sasso.
- Come immaginavo. - fu il commento della voce metallica. - Il giudizio è presto dato. Qualcuno ha obiezioni?
Per qualche momento vi fu assoluto silenzio e nessuno si mosse, neppur lievemente. Poi, da un’estremità del tavolo una mano si sollevò, alzandosi e riposando delicatamente sul legno scuro. Un gesto che io potei scorgere solo indistintamente, chino com’ero con tutto il mio viso sui pesanti mattoni grigi e irregolari, ma che mi commosse profondamente.
-Ti prego di riconsiderare la tua posizione! - fu il monito della voce centrale.
Trascorsero alcuni secondi e la mano non si sollevò più.
Non volevo suscitare pietà, ma la compassione che provavo per me stesso e la vergogna mi spinsero molto vicino alle lacrime. Se tutti, infine, avevano accettato la mia condanna, dovevo aver raggiunto la più triste indegnità.
- Molto bene. Ora che tutto è stato risolto, potremo tornare al lavoro.
Il Logico si alzò e gli altri lo seguirono a un suo cenno. Nessuno si rivolse a me, che attendevo di conoscere il giudizio.
- Ancora un istante… - domandai da miserabile qual ero. - Un istante… - ripetei mentre tutti si voltavano verso di me seccamente, adirati per l’ulteriore illegittima pretesa.
- Dunque non sai? - chiese aspra la voce metallica.
Io ebbi un moto di terrore; naturalmente quella domanda era stata la mia ultima trasgressione. D’un tratto tutto mi fu chiaro. Fui sul punto di gridare, forse lo feci, ma il fragore tremendo dell’ennesimo tuono coprì la mia voce.
Un tuono di potenza straordinaria, breve e terribile come un’esplosione.
- Guglielmo, hai una penna per favore? Guglielmo?
Mi voltai all’improvviso verso il mio vicino. Una penna? Il temporale era passato. Fuori continuava a piovere ma nella stanza tutti erano, come poco prima, impegnati a seguire i ragionamenti del Relatore e a prendere appunti per qualche domanda finale.
- Ma a cosa stai pensando? E’ un quarto d’ora che fissi quegli alberi!
Gli alberi? Ora tutto era stranamente tranquillo. Scoppiai a ridere. Neppure questa volta ero stato capace di seguire per intero una relazione di Logica.
E’ impossibile descrivere con quale sollievo mi guardai intorno. Non c’era più nulla in quella stanza che potesse farmi paura. Era stato solo un incubo, un parto della mia immaginazione eccessivamente feconda.
Dopo una mezz’ora il Relatore smise di parlare. Ricordo ancora gli ultimi passi del suo discorso:
“La validità di una logica dipende dal valore conoscitivo del linguaggio peculiare cui può essere riferita, non dalla sua mera comprensibilità”.
Si discusse ancora a lungo su ciò che era stato detto, poi ci salutammo e ci avviammo verso la porta.
Fu di certo soltanto una coincidenza, una malvagia ironia del caso se, uscendo, non potei fare a meno di notare, sul tavolo che fungeva da banco per il Relatore, dei minuscoli depositi di cera, delle macchioline bianche quasi impercettibili.
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